Guardo un posto e lo vivo. Poi mi giro
e vedo nitidamente come quello stesso luogo venga vissuto da una
persona esterna, sconosciuta.
Il luogo che per me è prigione,
devianza dell'essere, costrizione socioculturale, rinnegazione del sé
per uno sconosciuto può significare chiarezza, respiro, calma, fuga,
tranquillità, sfogo, martirio.
E io non lo percepisco perché sono
troppo presa dalla disillusione, dagli automatismi, dai miei
sentimenti, dalla voglia di evadere, dal pensiero di leggere,
dall'anarchia di poter scegliere.
Poi apro gli occhi e mi rendo conto che
quel luogo è un rifugio per molti. Un rifugio per vite forse
monotone, forse difficili. Persone con un lavoro che disprezzano. Una
lavoro che non rappresenta il loro essere, da cui non riescono a
trarre soddisfazioni e gratificazioni. Persone che non hanno un
lavoro da cui distaccarsi. Un lavoro che determini cosa sono e cosa
non sono. Cosa vogliono essere o cosa no. Per definirsi c'è davvero
bisogno di sapere cosa non siamo? Ma di chi stiamo parlando. Di me o
di loro? Forse ci sentiamo allo stesso modo. E se io mi rifugiassi
nei loro uffici o sulle loro scrivanie potrei forse sentirmi meglio?
A volte basterebbe essere ovunque ma
non in quel luogo. A volte invece no. Ovunque non basta.