sabato 11 luglio 2015

il tempo dei cactus


"I cactus fioriscono raramente, e quando lo fanno, quando spuntano quei fiori giganteschi, il tempo mi sembra più prezioso che mai. Li puoi fotografare quanto vuoi, ma il profumo, la loro forza, la bellezza ammaliante delle loro forme di notte, sono tutti particolari destinati a scomparire. Nell'arco di poche ore i boccioli si aprono e si richiudono. L'apertura è generosa, è un regalo. Guardando quello spettacolo mi si stringe il cuore... Poco alla volta comprendo il vero significato del tempo. Comunque si voglia mettere esiste solo l'oggi.”

Banana Yoshimoto Il dolore, le ombre, la magia

mercoledì 6 maggio 2015

tela

perché poi ti fai prendere da quella incessante emozione di scoprire. da quella voglia di vivere intensamente ogni sentimento. dal bisogno di riscoprire i lutti.
e non ti fermi. non riesci a fermarti. a volte il panico si dirama nel tuo corpo seguendo reti invisibili, vene varicose, nei deformi.
no, non riesci a fermare quel dolore che senti. è troppo forte, pulsa sotto un tessuto di tela che vorrebbe mettere a tacere ogni dubbio, ogni perplessità.
ma resta lì. pulsa finché un giorno non esploderà. vedrai la tela lacerarsi sotto i tuoi occhi e non potrai farci nulla. ti sarà concesso solo di guardare impotente il mondo davanti a te.
ora è il tuo momento, vivi.

lunedì 17 febbraio 2014

Come mi sento.

Mi sento fragile. Sono seduta dentro una bolla di sapone sospesa nell'aria, aggrovigliata su me stessa. E'  una bolla di sapone che ho costruito con tanta fatica. L'ho costruita per rifugiarmici. Sì, perché sto vivendo in un mondo che non mi piace. Un mondo che cerco di cambiare a mio modo. Ma delle volte è troppo difficile. Troppo doloroso. Così scappo. Scappo nella bolla. E lì rimango. Immobile.

Quando comincio ad aprirmi nuovamente al mondo, la bolla scoppia. E io comincio a precipitare senza sosta. Non arrivo mai da nessuna parte. Precipito e basta. E mentre precipito con grande fatica comincio a creare una nuova bolla, perché quello è l'unico modo che ho per porre fine alla caduta.

giovedì 2 gennaio 2014

vuoto

Ho letteralmente bisogno di vomitare tutto quello che ho dentro. Di svuotarmi dai pensieri, dai problemi dalle sensazioni di inadeguatezza e stordimento.
Sogno di saltare sui prati e dormire sulla cima di una collina. Sogno di rompere un vetro e di raccoglierne i mille pezzi in cui si è frantumato. Con calma e pazienza. Uno per volta. Viaggio nel tempo e guardo la mia vita scorrere fino ad arrivare all'oggi. Non riesco a pormi delle domande. Non riesco a capire cosa sto provando. Una molecola di straniamento sta percorrendo il mio corpo in ogni suo centimetro. Parte dalle dita delle mani e non riesco a fermarla in alcun modo. Per scorrere utilizza vene e nervi. Li sta infettando. Voglio trovare il modo di farla uscire. Ma la molecola imperterrita rotola. Sì perché è rotonda.
Allora decido di ignorarla. Penso all'equilibrio. Immagino di camminare su un filo molto sottile a circa trecento metri di altezza dal suolo. Il filo è come l'arcobaleno. Non riesco a capire cosa ci sia ai suoi estremi. Dov'è legato? E con cosa? Io sono nel mezzo, in qualche modo ci sono finita nel mezzo. Ma non ricordo come. Non lo so. Smetto di chiedermelo e cerco di concentrarmi sui miei piedi e sul filo. Così ricordo di avere un piede rotto. La cosa si fa complicata, ma voglio riuscirci. 
Cado. Nel vuoto.

mercoledì 23 ottobre 2013

Ipazia

Di tutti i cambiamenti di lingua che deve affrontare il viaggiatore in terre lontane, nessuno uguaglia quello che lo attende nella città di Ipazia, perché non riguarda le parole ma le cose. Entrai a Ipazia un mattino, un giardino di magnolie si specchiava su lagune azzurre, io andavo tra le siepi sicuro di scoprire belle e giovani dame fare il bagno: ma in fondo all’acqua i granchi mordevano gli occhi delle suicide con la pietra legata al collo e i capelli verdi d’alghe.
Mi sentii defraudato e volli chiedere giustizia al sultano. Salii le scale di porfido del palazzo dalle cupole più alte, attraversai sei cortili di maiolica con zampilli. La sala nel mezzo era sbarrata da inferriate: i forzati con nere catene al piede issavano rocce di basalto da una cava che s’apre sottoterra.
Non mi restava che interrogare i filosofi. Entrai nella grande biblioteca, mi persi tra scaffali che crollavano sotto le rilegature in pergamena, seguii l’ordine alfabetico d’alfabeti scomparsi, su e giù per corridoi, scalette e ponti. Nel più remoto gabinetto dei papiri, in una nuvola di fumo, mi apparvero gli occhi inebetiti d’un adolescente sdraiato su una stuoia, che non staccava le labbra da una pipa d’oppio.
- Dov’è il sapiente? - Il fumatore indicò fuori dalla finestra. Era un giardino con giochi infantili: i birilli, l’altalena, la trottola. Il filosofo sedeva sul prato. Disse: - I segni formano una lingua, ma non quella che credi di conoscere -. Capii che dovevo liberarmi dalle immagini che fin qui m’avevano annunciato le cose che cercavo: solo allora sarei riuscito ad intendere il linguaggio di Ipazia.
Ora basta che senta nitrire i cavalli e schiocchiate le fruste e già mi prende una trepidazione amorosa: a Ipazia devi entrare nelle scuderie e nei maneggi per vedere le belle donne che montano in sella con le cosce nude e i gambali sui polpacci, e appena s’avvicina un giovane straniero lo rovesciano su mucchi di fieno o di segatura e lo premono con i saldi capezzoli.
E quando il mio animo non chiede altro alimento e stimolo che la musica, so che va cercata nei cimiteri: i suonatori si nascondono nelle tombe; da una fossa all’altra si rispondo trilli di flauti, accordi d’arpe.
Certo anche a Ipazia verrà il giorno in cui il solo mio desiderio sarà partire. So che non dovrò scender al porto, ma salire sul pinnacolo più alto della rocca ed aspettare che una nave passi lassù. Ma passerà mai? Non c’è linguaggio senza inganno.


da Italo Calvino, Le città invisibili

martedì 30 aprile 2013

persian surgery dervishes

Ascoltando musica esploro nuovi orizzonti. Mi lascio trasportare dalle note che in successione si alternano rasentando la follia. Non ci sono parole dette, scritte, ripetute. Pura strumentalità. È così anche la mia anima in questo momento. Sento il bisogno di esprimermi con i suoni, senza parole che implichino un significato che possa essere configurato in forme conosciute. Niente riferimenti a soggetti realizzati, realizzabili o anche solo concepibili. No. Ho bisogno di altro. Voglio scatenare nuove forme e nuovi contenuti dentro di me. Voglio avere il coraggio di affrontare un nuovo cosmo, di esplorare un nuovo pianeta, conoscerne gli astri, le lune, le cavità più profonde. Anche quelle più difficili, più ostiche e oscure. Voglio scalarne le vette più alte, sentire le vertigine invadere il mio corpo. Respirare l'aria di questo nuovo posto. Spaventarmi per il mancato controllo, liberare l'ignoranza per poterla plasmare e colmare e ancora imprigionarla dentro di me, conservandola con gelosia per il prossimo viaggio.

lunedì 29 aprile 2013

Passa la stagione della pioggia e ritorna. Passano gli uragani e ritornano. Passa la notte e ritorna. L'eterno ritorno delle cose. Noi ci spegniamo a poco a poco, frammenti che si dissolvono nel corso dei giorni. L'unica mia via di scampo è scrivere, e scrivere tutto. Scrivere delle viscere e della solitudine. Scrivere come se l'anima si assentasse in un tentativo di fuga senza ritorno. Come se fosse l'unica cosa realizzabile, l'espiazione della condanna. Scrivere come se le ossa si stessero riducendo in polvere; piccole particelle che nel cambiare stato svanissero. È come se l'unico modo di fermare il tempo, l'unico modo ammissibile di limitare questo ridursi in polvere, fosse la scrittura. L'orologio che segna i minuti e tu consapevole che, nel preciso istante in cui la mano si fermerà, tutta la sua carne cadrà per terra, ineluttabilmente.
Scrivere tutto: il trascorrere delle ore e il respiro. Scrivere i lessemi e i morfemi, iperboli e parabole, e i cateti e le ipotenuse (la somma dei quadrati costruiti sui cateti è uguale al quadrato costruito sull'ipotenusa, c.v.d.). Scrivere il nonsenso dei sensi apparenti. Il buio che non si vede. Il silenzio in mezzo alla confusione. Il riso come reazione alla paura, e la paura come reazione all'incapacità di ridere. Scrivere che ti alzi ogni giorno sapendo che dentro ti stanno morendo cellule ed è come una morte in differita; e devi allontanarti e fare qualcosa, o fare come se niente fosse e aspettare. Scrivere come se fosse l'unica conferma che sei stato qui.

da La viaggiatrice di Karla Suarez